L’umore può essere definito come una tonalità emotiva di fondo che nasce in maniera spontanea e permea diffusamente tutto l’essere, connotando l’attitudine posturale e motoria del soggetto e le modalità con cui esso si rapporta con la realtà. Anche l’umore, come tutto quello che emotivamente ci riguarda, non è esente da disturbi che possono assumere connotazioni diverse per variazioni in “difetto” (Depressione) o in “eccesso” (Mania). Disturbi depressivi e maniacali sono presenti nell’essere umano fin dalle prime fasi della crescita, ma mentre le manifestazioni maniacali esordiscono, nella maggioranza dei casi, nel periodo adolescenziale, quelle depressive possono essere rilevate già nel bambino, con una prevalenza variabile da 0.4% a 2.5% nell’infanzia e fra 0.4% e 8.3% in adolescenza.
Le numerose indagini fin’ora effettuate per definire indagare le cause del disturbo depressivo non hanno dato fin’ora risposte certe, solo ipotesi difficilmente inseribili in un modello interpretativo unitario.
Nel 1940 Melanie Klein ricondusse la depressione ad una normale fase di sviluppo: la posizione depressiva, fase in cui il bambino scopre l’ambivalenza dei sentimenti, amore ed odio, che può provare verso uno stesso oggetto. La Klein sottolineò, inoltre, l’importanza delle esperienze precoci, che, quando particolarmente frustranti, comporterebbero la comparsa di vissuti depressivi.
Diversa è la posizione dei cognitivisti secondo i quali l’essenza del disturbo è rappresentata dai disturbi del pensiero: la percezione negativa che il soggetto ha di se stesso incide negativamente sulla qualità delle relazioni che egli stabilisce con le persone del suo ambiente significativo (famiglia, scuola, gruppo dei pari).
Si ipotizza, inoltre, una certa familiarità di alcuni bambini con il disturbo depressivo: i figli di un genitore depresso ha una probabilità tre volte superiore di cedere alla depressione. Ovviamente, tale probabilità aumenta considerevolmente quando entrambi i genitori sono depressi. Inoltre, studi approfonditi sull’ambiente familiare di pazienti-bambini depressi, hanno rilevato una maggiore frequenza di conflitti intrafamiliari, situazioni di abuso, scarsa comunicazione.
Indipendentemente dall’età di esordio, il disturbo depressivo non accompagna il soggetto vita natural durante, bensì possono ricorrere episodi in alcune fasi dello sviluppo, che variano di soggetto in soggetto.
Da recentissimi studi condotti negli Stati Uniti arrivano novità interessanti circa l’approssimarsi di questi stadi: secondo la rivista di sociologia Social Science e Medicine, il benessere psichico ha un picco positivo in giovane età, poi cala fino a un minimo intorno a quota 40, per poi reimpennarsi in età avanzata. Effetto opposto per la depressione, che avrebbe il suo picco massimo proprio intorno ai 40-44 anni.
In altre parole, felicità seguirebbe una linea ad U.
C’è però ancora una speranza per i quarantenni e futuri tali che ci arriva dritta dritta dall’università di Edimburgo e che ribalta completamente la tesi americana.
Un gruppo di psicologi dell’università, in collaborazione con i ricercatori dell’australiano Queensland Institute for Medical Research, ha condotto uno studio su 900 coppie di gemelli, omozigoti ed eterozigoti. Le coppie sono state scelte in base a precise caratteristiche caratteriali: coscienziosità, socievolezza e tendenza alla preoccupazione, caratteristiche queste che andrebbero ad incidere sulla curve della soddisfazione. Gli studi hanno dimostrato che la felicità dipende anche dal nostro corredo cromosomico; un mix di geni aiuterebbe, chi ce l’ha, ad approcciarsi positivamente alla vita. Dunque la questione si riduce ancora una volta solo ad una questione di fortuna, il caso, questo sconosciuto che a tutto provvede.
Dal 1940 ad oggi si sono approssimate teorie molto diverse tra loro, accomunate tutte da un unico aspetto: l’ ineluttabilità di certi stati d’animo. Qualunque sia lo studio cui si voglia dar credito, per fede o per comodità, resta il fatto che noi siamo ciò che dobbiamo essere, per natura o per progetto, condannati a noi stessi perché il nostro corredino è tutto già bello che scritto. Insomma i geni so’ geni e noi non siamo un cazzo!
Cosa farcene allora degli eminenti dottori della psiche che ci psicosiedono su morbidissime poltrone e ci chiedono e ci scrutano e ci fanno ricordare per poi, finalmente, dimenticare? Ed i beneamati farmaci che cancellano o meglio rimandano il dolore, dove dobbiamo metterceli?
E con che faccia guardare al nostro futuro? E in cotanto grigiume già corredato, dove collocare i fattori esterni: gli improvvisi lutti, gli incidenti di percorso, e’uaie?
3 commenti:
Cara BP, il tema è persino noioso: siamo artefici in qualche misura della nostra vita o siamo spettatori passivi? La seconda è nichilismo allo stato puro, quindi non è a mio avviso da prendere in considerazione.
I geni costruiscono la macchina ed il caso gli propone gli ostacoli; il conducente ha sempre una possibilità di scelta, foss'anche solo su quale muro andare a sfracellarsi.
L'esistenzialismo offre soluzioni interessanti, prova a leggere Camus sotto l'ombrellone.
Un abbraccio.
è una vitaccia cara Marzia!
Ugolino, tema noioso???
Io ti potrei scrivere un papiellone, su questo tema.
Perchè trovo sempre interessante la Klein, ma sono stata "in cura" da un cognitivista.
E ho semplicemente imparato a convivere con gli accidenti che, di certo, erano già nel mio corredaccio genetico.
Sai qual è il mio pensiero più assillante? E' che l'unno possa aver preso da me.
L'alternativa è la paranoia paterna.
ps. Ecco perche DEVE andare abroad, e abituarsi all'autosufficienza e all'autonomia. Non sarà La Soluzione, ma è importante.
:-|
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