Le macerie dei Coen
Burn After Reading… se in dirittura d’arrivo John Malkovich, ex agente della CIA, scende i gradini del suo scantinato con un bicchiere di whisky nella mano destra e una pistola nella sinistra, con le sue gambotte bianche, storte e rivoltanti, se sorprende Richard Jenkins, sacerdote spretato ora manager di una palestra, e credendo che questi sia l’amante di sua moglie finisce per stabilire di ammazzarlo, vuol dire che c’è la zampaccia dei Coen bros. Ovvero, il turbinio di variegate ma zoppicanti personalità americane, una volta presa la via della commedia, finisce per sputare a mo’ d’elettrodomestico selvaggio un paio di individui che conoscono l’esatto punto in cui il fondo non è più grattabile.
La trama è epicicloidale, per nulla scontata, semplice ma non schematizzabile, ricca e povera, densa e trasparente; in più, la trama è di nessuna importanza fatta eccezione che per il desiderio intimo che trasmette: significazione di caso e relativa disperazione di ogni umano quanto vano tentativo di sua sistemazione. Dunque sarebbe preferibile al sunto della trama una rapida delineazione dei tipi mascherati, dei vizi umani, che nella rappresentazione dei Coen si muovono senza orientamento, quasi senza vista, cozzando fra loro nella determinazione di un complicato stato d’animo che lambendo il dolore richiede una pratica di cinismo. Ad esempio, la traiettoria di Osborne Cox (John Malkovich), analista CIA improvvisamente travolto dalle macerie in cui si sgretola il suo mondo, va ad intersecarsi con quella di Chas (Brad Pitt) del cui mondo egli stesso forse non concepisce che la crosta, e ancora con la traiettoria cadente dell’amante di sua moglie (George Clooney) estetico e chiassoso, in una sequenza prossima a quella autoconsumante del motore a scoppio. Ed è appunto sotto lo strato di lamiera spessa costruito dalla scrittura e dalla ripresa dei Coen, che ogni attore riconosce e accetta con esiti magnifici il proprio ruolo nel procedimento verso l’esplosione; e ancorché tale ruolo possa apparire piccolo, parallelo, o trascurabile, non s’avrà mai la percezione della sua inutilità perché sarà conficcato, come una spina o una biella, nel profondo della ipotesi artistica. Ne segue un Brad Pitt sorprendentemente eccezionale, vicino, per intensità e superficialità, solo al Clooney-Ulisse di “Fratello dove sei?” sempre dei Coen; trovano conferma il talento sporco e comicamente rugoso di Frances McDormand, feticcio pubblico e privato, e l’esilarante controcanto di codardia e paranoia nascosto nel machìsimo George Clooney; per finire con la prova totalmente subacquea, quanto a presenza nella storia, della Tilda Swinton, algida, zigrinata, quindi stupidamente macabra proprio come era opportuno che fosse.
Quanto al come, molto predica l’ingresso in zoom dal satellite verso la città di Washington, verso gli edifici e i corridoi, fino alla razza d’uomini che aprirà e chiuderà la vicenda in una saletta come un’altra. Alla stregua di un’incursione, mano a mano che la punta scaverà – e che la materia filmica si lascerà trapanare – emergerà netta la definizione della congrega di imbecilli (talvolta cromaticamente dichiarati all’immagine tramite la divisa della palestra “HardBodies”). Tant’è che l’azione pura, quell’intreccio caotico ma pure geometrico che anima i Coen, è innescata dalla voglia che una donna di mezza età ha di ridefinire se stessa. Si tratta, sotto il verbo, di chirurgia estetica. Di fronte allo sconquasso che ne sarà generato, gli uomini delle salette dei comandi, gli agenti di sicurezza tanto americani quanto russi, si limiteranno a controllare e a pulire le scorie che gli imbecilli lasceranno per strada. Un’inazione (o piuttosto un’azione igienica) che alla luce dell’attenzione sagace che i fratelli Coen dedicano all’attualità non può che essere sintomatica della fine dichiarata di un mondo, e della nascita di un altro – è un caso che le attività della CIA riguardo al più traumatico avvenimento della nostra epoca, l’undici settembre 2001, si siano limitate a una pulizia successiva anziché alla intercettazione preventiva?
Al cospetto di tali intelligenze, e di tale intelligenza (intendendo quella dei servizi), risulta arduo individuare vie d’uscita ad un groviglio che, pur se circoscritto alla stesura di una commedia sui generis, non può che essere esteso, per modalità e materia, al panorama umano che tale commedia acclamerà. Ed è in tale acclamazione che andrebbe rintracciato quel germe, forse allarmante o forse divertente, che i due registi propongono come un fiume sotterraneo al ruzzolare degli eventi scenici ma che riesce ad affiorare in una desolazione concreta. Il genio è sensibilità e capacità di instaurare legami invisibili fra il sentito e il da-sentire, ossia: forme inattese quali il sesso rimediato sul web, la frustrazione del sogno di essere ancora in qualche modo al mondo (il libro che Osborne Cox vuole scrivere), l’utopia dell’apparire e i vecchi canoni (con i nuovi metodi) di bellezza, la foga insaziata per la forma fisica, tutto ciò è la versione tradotta di uno stato percepito, emotivamente piuttosto che intellettualmente, dai due geniacci di Minneapolis. E tutto ciò, ancora, comunica allo spettatore iniziato che s’approssima al Coen’s una simpatia per la roboante caduta della società rappresentata, per le macerie desolate che si stagliano contro l’ennesimo, bianco, marmoreo, edificio della capitale burocratica d’america.
Ed allora questo mondo così regolato dai Coen, come sbobinato da un’incursione satellitare che non sappia trovare giustificazioni, assume una forma tristemente paralitica, poiché tutti gli elementi che in natura (una natura sociale) si presentano come contrapposti finiscono per attrarsi componendo, con l’alchimia dei Coen e dopo vortici e scariche elettriche, una realtà priva di alcun senso che non sia bizzarro. A conferma di ciò, come in “No country for old men” c’è anche in “Burn after reading” una domanda finale su una possibile morale o insegnamento. Ma come accade nel western, sebbene i toni siano più medi, più mediati o più borghesi, la vera risposta è nell’incapacità stessa da parte dei domandanti di trovarne una. Qui, non altrove, è la comicità amara. Qui il capitolo massimo dell’ironia: una non-risposta che a suo modo risponde alla domanda sul senso di tutto.
Confidenzialmente, un segreto sugli alieni
C’è un film di cui bisogna parlare. Il regista è un vago Jack Sholder il cui ultimo lavoro è “Arachnid – Il predatore” (2001, storiella di ragni e astronavi), un ragazzone classe ’45, di Philadelphia, cresciuto a cereali e latte che come sapeva l’Albertone nostro non provocano mica... cresciuto dunque pacioso, a sostanza e ritmo. Nel 1987 Jack Sholder dirige “L’alieno” – il cui titolo originale “The Hidden” è di gran lunga più evocativo oltre che specificante. Un mix di horror, poliziesco e fantascienza neanche tanto alcolico, scarsamente saporito, finanche scialbo e disgregato, che però poggia con una certa degnazione su effetti speciali particolarmente riusciti, sul ritmo incalzante e ciclico proprio di un’accurata tradizione horror, e sulla disinvoltura e stanchezza con cui il pubblico che di giorno porta il proprio brick to the wall si rilassa, alla sera, dinanzi al prodotto di consumo.
Trapela da queste poche righe, attraverso un pelo manco tanto fine, un giudizio artisticamente catastrofico. Ed infatti la curiosità del film, al contrario di quanto accada alle centinaia di altri film da accompagnamento al sonno, sta nella delineazione di un tipo di alieno fottutamente umano (si perdoni il cinemismo), profondamente anni ottanta, cinicamente incurante delle buone norme extraterrestri dettate dalle immagini di Spielberg. Mi si potrà dire: cosa c’entra il divino Steven? Ebbene, in quale prodotto di consumo non entra il divino Steven?
Già nel 1971 Steven Spielberg si costruisce la fama del sovvertitore d’immaginario collettivo con “Duel” in cui la tensione, nella ipermotorizzata società americana, quella delle larghe strade e dei lunghi tir, è espressa da un’autocisterna; poi nel 1975 sfonda con “Lo squalo” (fondando un genere) in cui la tensione arriva, ad una località turistica estiva, dal mare. Certo, tecnicamente nulla si discute, ed infatti se arte e tecnica qui non vanno discusse per l’alieno di Sholder figurarsi per i robottini italospielberghiani. Fatto sta che quando nel 1977 il regista di Cincinnati esce con “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, e nel 1982 con “E.T.” risulta chiaro quale sia l’oliatura del meccanismo: captare un sogno o una paura fondamentali, e farli emergere da luoghi inattesi o con esiti sorprendenti. È il boom: negli anni ‘80, introdotto dall’incontro ravvicinato dei fine ‘70, l’extraterrestre è buono. O piuttosto, in mancanza di codificazioni morali (se non di una deontologia propria della professione di extraterrestre), la bontà si ricama in maniera esattamente speculare alla bontà umana. Peggio, alla bontà umana infantile. Un po’ il cappottino rosso che rompe l’artefazione dicromatica della lista di Schindler: una goccia, la fanciullezza, la purezza, il rosso, il cuore, etc etc. Tutto sommato (si deve pur riconoscere) c’è della quantità di grandezza nella edificazione votata all’esito, soprattutto quando tale esito è chirurgicamente ottenuto in forma di commozione, di terrore o di tensione – esattamente come l’architetto che progetta il ponte selezionerà fra le varie forme quella che garantisce giusto sostegno – ; tuttavia è la compiacenza, non tanto verso se stessi quanto verso il pubblico, a declassare il prodotto dal ristretto novero delle opere costruttive/distruttive, da quelle indagini che scovano l’umano, l’oltre-umano, o il post-umano – a dire: il ponte dell’architetto di sopra, per quanto gradevole possa essere, non sarà mai semanticamente gravido quanto una cattedrale.
Lasciamo ora i ponti e torniamo all’alieno del “The Hidden” di Jack Sholder per chiarire, in controcampo a Spielberg, la mediocre portata altamente rivoluzionaria del nostro film. Anzitutto la forma dell’intruso è per niente umanoide. Esso non ha braccia né dita fluorescenti, non ha gambe né testoni né occhi languidi, non indica case né telefoni né amici. È semplicemente brutto, con tanto di tentacoli e ramificazioni viscide nella migliore, buona vecchia e sana, tradizione dell’estraneo. Ma ciò che più importa è che l’alieno è assolutamente avulso da qualsiasi argomento emotivo. È un prodotto di metà anni ‘80, concepito a Gloria Gaynor e poppato a pop-music, uscito fuori dalle sportellate di Bo e Luke nella contea di “Hazzard” (1979-1985), incubate a loro volta nel facile poliziesco urbano di “Starsky e Hutch” (1975-1979), ed emerso nel gran bel vezzo estetico, tutto fenicotteri al tramonto, bionde in bikini, e testarossa bianca, di “Miami Vice” (1984-1988). L’alieno di Jack Sholder è momentaneamente sulla Terra, non si sa da quanto, non si sa perché, non si sa per quanto. Abita un corpo umano per muoversi e vivere da parassita, portandolo allo stremo e abbandonandolo per un altro temporaneo veicolo un istante prima o dopo che questi sia morto. Il gran miracolo di tale essere è la sua perfetta inutilità drammaturgica paragonabile solo alla inutilità del film stesso, superata di appena un soffio dagli sforzi con cui lo combatte la parte buona – personificata dall’immacolatamente angelico Kyle Maclachlan (il pupillo di mastro Lynch in “Twin Peaks”, “Dune” e “Blue Velvet”, nonché il Ray Manzarek in “The Doors” di Oliver Stone). La sua inutilità, debolissimo segno di una poco sconcertante assenza di pensiero o morale, si evince inoltre dal rapporto per nulla indagato col suo ospite terrestre, e dalle sue pulsioni terribilmente commerciali: l’alieno non chiede altro, non vuole altro che una Ferrari, qualche tetta da palpeggiare, e del buon ripugnante pop. La sua cattiveria non sarà tale, per lui, esattamente come la bontà di E.T. ditino rosso non è tale per lui, perché l’alieno di Sholder ammazza solo in nome di quelle tre cosine che vuole. Poco più che una forma patologica di eccessivo individualismo. Una nebulosa di leggerissimo, insipidissimo, vapore acqueo che s’accresce della scarsa resistenza opposta alla gravità, e campa di nessuna domanda, nessuna risposta, nessuna volontà di domandare o rispondere o penentrare dilemmi. Solo una sfoglia inutile strutturata su quell’individualismo esasperato, e mai più inutile, di cui la nostra civiltà s’è invaghita forse proprio negli anni ’80, perfezionandosi a rampantismo yuppie poco dopo, e giungendo addirittura – positivista esempio sperimentale – a concepire oggi un apparato comunicativo che abbia come soggetto l’indistinta totalità: reality show per la tv, blogs per la scrittura, questa pagina per una cultura di sottobosco.
È qui allora che fallisce Spielberg. Ed è qui che giace fra pessime incrostazioni la voce inutilmente di denuncia dell’alieno di Sholder. Ma… sshhh, questo è un segreto, nessuno a parte Rapporto Confidenziale ve lo dirà mai.
Esce anche puntuale Libmagazine. Vi segnalo un articolo sempre di Ciro Monacella sul rapporto fra Marcello Lippi e la fantasia, e un articolo sulle proteste anti-Gelmini che reca la mia firma. Sotto la vignetta in argomento.
1 commento:
troppa roba, eh?
Posta un commento