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mercoledì 13 gennaio 2010

Il tempo delle donne non è quello degli uomini. Diritto al risarcimento pubblico per le donne vittime di violenza sessuata

RICEVO E PUBBLICO
In Italia non si parla più della
legge organica contro le violenze sessuate.
Eppure il vuoto legislativo si evince proprio nel capitolo “pericolosità sociale”,
lì sta il perché del richiamo della Corte Europea sulla libertà concessa ad un femminicida che ha poi ucciso ancora.
Il tempo delle donne non è quello degli uomini.
Il Parlamento dovrà prenderne atto ed intanto riconoscere per legge il diritto delle vittime di violenza sessuata al risarcimento pubblico.


Il 2015 viene indicato dall’ONU come l’anno nel quale gli Stati membri dovranno andare all’eliminazione della violenza contro le donne.
Le risoluzioni per l’attuazione degli obiettivi posti dalla CEDAW (convenzione per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne), di cui nel 2009 è ricorso il trentennale, sono state sottoscritte dall’Italia.
A quella sottoscrizione non sono seguite misure parlamentari e di governo a conferma della priorità dell’impegno per l’eliminazione dei meccanismi che determinano la discriminazione delle donne.
L’eliminazione della violenza degli uomini sulle donne, in tutte le risoluzioni dell’ONU, recepite dall’Europa, è indicato come obiettivo centrale e prodromico all’abolizione delle subalternità del genere femminile.
In Italia le donne e il femminismo organizzato hanno costituito una rete politica e solidale; da quell’esperienza hanno espresso il punto di vista fondato sulla consapevolezza dei diritti ed hanno spostato i traguardi per la realizzazione della democrazia.
Dalla modifica del codice Rocco fino al riconoscimento del reato Stalking, le argomentazioni del movimento delle donne per l’eliminazione della violenza degli uomini sulle donne sono state “interpretate” riduttivamente dalla politica Italiana, che è storicamente indifferente alla rivendicazione di una legge organica.
Questa indifferenza fattuale a considerare il fenomeno nella sua reale dimensione, ha prodotto uno spezzettamento teorico di comodo del fenomeno che, anche dal punto di vista lessicale, dissimula che la violenza sessuata (degli uomini sulle donne e sulla prole) è una modalità dalla radice unica, e cioè che è l’espressione e l’affermazione dell’asimmetria di potere tra generi, presente in ogni segmento dell’articolazione dei rapporti socio-economici.
Abbiamo, infatti, diverse classificazioni di un unico reato, facendolo apparire come tale solo quando è stupro di strada, modulandone negli altri casi la nomenclatura in relazione al luogo dove si perpetra il crimine: bullismo nelle scuole, mobbing sessuale sui posti di lavoro, delitto passionale, violenza domestica, omicidio tribale, prostituzione coatta, prostituzione minorile e via dicendo.
L’elaborazione dei movimenti femministi e dei centri antiviolenza ha permesso di vedere in modo chiaro nelle radici del problema, che è strutturale, e nella diffusione, che ne fa un fenomeno socio-criminale.
È da quell’elaborazione che la politica ha preso la terminologia politicamente attribuita al fenomeno, senza nominare le fonti. E’ infatti da quell’elaborazione che attinge definizioni e le svuota del loro significato, per legittimare interventi che non disturbano il perpetuarsi della violenza. Va detto inoltre la prevenzione, che normalmente è prevista per ogni reato, non è mai presa in esame.
Quella che oggi anche i Governi chiamano rete antiviolenza, è costituita per lo più da iniziative messe in campo dalle donne, preesistenti alla presa in carico del problema da parte dello Stato, per altro recentissima.
La rete antiviolenza è un’invenzione femminile, che appunto ha preceduto lo Stato, autofinanziandosi e gestendosi con mezzi commisurati appunto alla possibilità delle donne che lo gestivano. Doveva forzatamente limitarsi ad azioni ex post, cioè a violenza avvenuta.
Lo Stato, sul danno avvenuto, investendosi, formalmente, del crimine e delle vittime, non ha però aggiunto nulla a quanto le donne già facevano. Ne rivendica semplicemente l’azione come propria.
Dalla lettura delle leggi finanziarie si evince l’irrisorietà dei finanziamenti e quindi l’irrilevanza attribuita alle vite delle donne.
Questo comportamento diventa difficile da giustificare di fronte all’enfasi con la quale i politici sostengono di avere volontà di intervenire sul problema.
Difficile da giustificare, ma si giustifica, a dispetto delle intelligenze, contabilizzando nelle risorse impiegate contro le violenze sulle donne, fondi normalmente destinati ad altri scopi, come la repressione verso gli immigrati.
Infatti Il contrasto pubblico alle violenze è stato pretesto per operazioni di ordine pubblico, che come si può osservare non hanno modificato significativamente i dati di sempre, neanche negli stupri di strada.
Questa politica che non destina risorse e che non vuole nei fatti affrontare il problema, di cui è stata costretta ad occuparsi, cerca di difendersi anche da una crescita delle denunce dei crimini nelle mura domestiche. Vediamo infatti che l’azione fatta dalle donne per incoraggiare le denunce, ha come interfaccia governativa la produzione di spot televisivi e cartacei che (fastidiosamente imbevuti di retorica sulle cittadine rappresentate come fiori) comunicano senza alcuna possibilità di altra interpretazione che la responsabilità principale è proprio delle vittime che non “hanno il coraggio” di denunciare.
Va allora detto che il contesto attuale, che non ha mai smesso di sottintendere la sottomissione femminile, davvero richiede molto coraggio alle vittime. Dopo la denuncia spesso le donne si trovano ugualmente minacciate, più povere e senza casa, mentre i colpevoli raramente cambiano condizione.


Intanto, nella difficoltà di quantificare il reale impiego dei fondi comunque erogati, non si comprende come e dove questi vengano assegnati, vista la precarietà nella quale vivono gli insufficienti servizi tenuti in essere dalla volontà delle donne.
L’unica certezza è che, sotto diverse forme, fondi pubblici vengono assegnati ad alcune realtà religiose che si occupano invece di donne bisognose, in procinto di abortire, ragazze madri (desta una certa indignazione la riscoperta di questa locuzione in luogo di “madri capofamiglia”), poi conteggiate nella rete antiviolenza, per la cronica mancanza di fondi.
In questa prospettiva si vedono improvvisare sportelli, centri, case di accoglienza che non danno alcuna garanzia di rispetto dei protocolli riconosciuti per l’accompagnamento delle vittime in un percorso di autodeterminazione.
Si vede crescere l’antiviolenza come affare e occasione di clientelismo politico. In questa prospettiva, ancora, si è aperto il fronte arcaico della beneficenza e delle donazioni su cui è difficile stabilire un benché minimo controllo.


Questo spaccato, che solo in parte descrive lo scarso effettivo interesse della politica Italiana a contrastare la violenza sessuata, prefigura la prospettiva di un sempre crescente ritardo di fronte alle cittadine e sulla scena mondiale al 2015.
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Il punto di oggi non è più dimostrare che la violenza esiste perché un genere la impone all’altro, al di là delle convinzioni dei singoli politici o dei singoli cittadini, ma anche, perché no, al di là delle convinzioni di donne che pur avvertendo la tortura cui sono sottoposte non possono poi decidere che altre e le proprie figlie la subiscano tramandando un crimine che è insieme un privilegio.
Il punto di oggi è che di fronte a quanto accade e può accadere ad ogni donna, lo Stato Italiano, pur considerando ufficialmente la violenza sessuata un crimine, ancora vi si pone di fronte non avvertendo il proprio obbligo a garantire il rispetto un diritto umano.
Non si tratta per la politica di governare i sentimenti, perché non le compete e perchè questo attiene alle libertà individuali: si tratta di impedire che questi sentimenti e le convinzioni personali abbiano la forma e peso politici che condizionano la legalità verso le cittadine Italiane e verso i paesi coi quali si tratta e si scambia.

Se siamo ancora al punto in cui lo Stato, su un crimine che dimezza e a volte annulla il diritto di cittadinanza femminile, si limita ad auspicare pubblicamente buoni sentimenti, tollerando nei fatti pratiche femminicide, sarà il movimento organizzato delle donne a dover ingaggiare azioni necessarie ad uscire dalla logica del semplice riparo al danno avvenuto e del semplice riconoscimento che il crimine c’è.
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Facendo un paragone incongruo, ma commisurato alla capacità di comprendere del livello politico attuale, non c’è che da chiedersi quale credibilità potrebbero reclamare un Governo ed uno Stato che di fronte alle mafie si comportassero in modo analogo a quanto agiscono verso le violenze commesse sulle donne.
Se pure la violenza sessuata ha carattere più distruttivo delle mafie perché attraversa tutte le condizioni e tutti i livelli di potere, va affrontata dal potere politico almeno per quanto si fa per le mafie.

Più delle mafie la violenza espressa sulle donne corrompe, sposta risorse economiche, crea situazioni patrimoniali illegittime, blocca interi segmenti dell’economia. Più delle mafie fidelizza e condiziona consensi, è fonte di ricatto e limita la democrazia. Più delle mafie condiziona e distorce i rapporti politici.
Si tratta insomma di un fenomeno criminale che per carattere strutturale, diffusione e ripercussioni costituisce pericolosità pubblica e sociale.
Più che per le mafie, anche di fronte alle scadenze della legalità internazionale nell’incontro tra le culture, deve essere reso visibile e non equivocabile l’interesse superiore della Nazione all’eliminazione della violenza sessuata.

Gli Stati e lo Stato Italiano hanno una strada obbligata per acquisire credibilità nella lotta al crimine: compiere gesti onerosi e significativi.
Sul modello che ha affermato l’interesse superiore dello Stato a combattere le mafie, va almeno e necessariamente riconosciuto il diritto al risarcimento delle vittime di violenza sessuata.
La creazione di un congruo fondo pubblico per il risarcimento, costituito dal sequestro dei beni degli autori dei crimini, con modalità eque verso le loro famiglie incolpevoli, costituisce ormai una tappa obbligata e percorribile.



Udi di Napoli, Associazione Maddalena, Associazione donne medico, Arcidonna, Comitato 194, DonneSuDonne, Centro EVA, Elvira Reale, Simona Ricciardelli, Ersilia Salvato, Elena Coccia, Maria Giorgia De Gennaro, Maria Pia de Riso, Angela Cortese, Annamaria Spina, Giovanna Crivelli, Udi di Catania, Carla Cantatore, Spazio Aspasia, Annalisa Marino, DonneSuDonne, Controviolenzadonne, Carmela de Santo, Rosetta Papa, Arcilesbica-Le Maree, Lidia Menapace



Napoli, Dicembre 2009

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